Il dialogo tra Gesù e il dottore della legge tratta di una questione che ci riguarda tutti: come posso vivere giustamente? Che cosa devo fare affinché il mio essere uomo riesca? A tal fine non basta guadagnare soldi ed esercitare influsso: si può essere molto ricchi e tuttavia passare accanto alla vita autentica, rendere se stessi e altri infelici. Si può essere potenti, ma con questo distruggere più che costruire.
Come posso dunque imparare a essere un uomo? Che cosa ci vuole per questo?
Il dottore della legge nella sua domanda nomina già un presupposto a cui noi oggi di solito non pensiamo più: affinché questa vita riesca, io devo in mezzo a essa andare incontro alla vita eterna. Devo riflettere sul fatto che Dio ha pensato per me un compito nel mondo e che un giorno mi domanderà che cosa ho fatto della mia vita.
Oggi molti affermano che il pensiero della vita eterna impedisce agli uomini di fare ciò che è giusto in questo mondo. Ma è vero il contrario: se noi perdiamo di vista il criterio di Dio, il criterio dell’eternità, allora non rimane come linea guida altro che l’egoismo. Allora ognuno tenterà di prendersi dalla vita tutto ciò che è possibile.
Allora egli considererà tutti gli altri come nemici della propria felicità, come quelli che minacciano di portargli via qualcosa; invidia e desiderio prendono il sopravvento nella vita e avvelenano il mondo. Se viceversa costruiamo la nostra vita in modo che possa sussistere davanti agli occhi di Dio, allora essa renderà visibile anche per gli altri un riflesso della bontà di Dio. Questo è un primo criterio: non vivere solo per te stesso; vivi sotto gli occhi di Dio; vivi in modo che Egli possa guardarti e che un giorno tu possa essere benvenuto eternamente nella compagnia di Dio e dei suoi santi.
Nella domanda dunque del dottore della legge è già contenuta la vera risposta che poi egli stesso si dà: “Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua intelligenza. E ama il tuo prossimo come te stesso” (10,27).
La prima cosa dovrebbe dunque essere che Dio sia presente nella nostra vita. Il conto della vita umana non si risolve se si lascia fuori Dio; non rimane allora che pura contraddizione. Noi dobbiamo dunque non solo credere in qualche modo teoricamente che Dio è; dobbiamo considerarlo come la realtà più reale di tutte nella nostra vita. Egli deve, come dice la Scrittura, penetrare in tutti gli strati della nostra vita e riempirli completamente: il cuore deve sapere di Lui e lasciarsi toccare da Lui; l’anima, le energie del nostro volere e decidere, l’intelligenza, il pensiero. Egli deve essere dappertutto. E la nostra relazione di fondo nei suoi riguardi deve chiamarsi amore.
Questo a volte può essere molto difficile. Può succedere, per esempio, che un uomo venga colpito da diverse malattie e impedimenti. A un’altra persona la povertà rende la vita insopportabilmente pesante. Un altro ancora perde le persone dal cui amore dipendeva tutta la sua vita. Le disgrazie possono essere molteplici. Allora è molto grande il pericolo che un uomo si amareggi e dica: Dio non può affatto essere buono, altrimenti non potrebbe comportarsi con me in questo modo. Se Dio mi amasse, avrebbe dovuto crearmi in altro modo e darmi altre qualità e altre circostanze esistenziali.
Una simile ribellione contro Dio è molto comprensibile, talvolta approvare Dio sembra quasi impossibile. Ma chi si abbandona a una simile ribellione avvelena la sua vita. Il veleno del no, della rabbia contro Dio e contro il mondo lo divora da dentro. Ma Dio desidera da noi, per così dire, un anticipo di fiducia. Egli ci dice: so che ora tu non mi comprendi, ma confida in me nonostante tutto; credi che sono buono e abbi il coraggio di vivere di questa fiducia. Allora riconoscerai che proprio così ti ho fatto del bene. Esistono molti esempi di santi e di grandi uomini che hanno avuto il coraggio di questa fiducia e che proprio così, nella più grande oscurità, hanno trovato la vera felicità: per sé e per molti altri.
Per una vita felice occorre dunque un’intima intesa con Dio. Solo se va bene questa relazione di fondo, anche altre relazioni possono diventare giuste. Perciò è importante imparare lungo tutta una vita e fin dalla gioventù a pensare con Dio, a sentire con Dio, a volere con Dio, affinché di qui venga l’amore. In tal modo l’amore diventa il tono di fondo della nostra vita. In questo caso, l’amore del prossimo si capisce da sé. Perché se il tono di fondo della mia vita è amore, allora anche il mio rapporto con il prossimo che Dio ha messo sulla mia strada posso viverlo soltanto a partire dall’accettazione, dalla fiducia, dall’affermazione e dall’amore.
La sacra Scrittura adopera, a descrizione dell’amore del prossimo, un modo di dire molto saggio e profondo: “Amare come te stesso”. Essa non esige un eroismo avventuroso e falso. Essa non dice: tu devi negare te stesso ed esistere unicamente per l’altro, tu devi fare a meno di te o cose simili. No, come te stesso. Né più né meno. Una persona che non è in pace con se stessa non sarà realmente buona
neppure con gli altri. Il vero amore è giusto: amarsi come uno dei membri del corpo di Cristo, a questo ci conduce. Sé come gli altri. Liberarsi di quella falsa prospettiva, con cui tutti nasciamo, come se il mondo girasse intorno al nostro io. Noi tutti dobbiamo apprendere con la fede una specie di svolta copernicana. Copernico scoprì che non il sole gira intorno alla terra, ma che questa terra, con gli altri pianeti, gira intorno al sole. Ognuno di noi vede se stesso dapprima come una piccola terra intorno alla quale tutti i soli devono ruotare. La fede ci insegna a uscire da quest’errore e a entrare con tutti gli altri, per così dire, nella danza dell’amore intorno all’unico centro, intorno al centro che è Dio. Soltanto se Dio esiste, soltanto se Egli è diventato il centro della mia vita, soltanto allora è possibile questo “amare come me stesso”.
Benedetto XVI, Omelia su Lc 10,25-37
Dipinto di Vincent Van Gogh “I mangiatori di patate”