Non ci resta che piangere? Il coronavirus a CasalBruciato

Casalbruciato, via Sandro Sandri. Una mattina di marzo 2020.

Affacciandomi dalla finestra stamattina sulla via sottostante sono rimasto colpito dal fatto che era deserta e pulita come mai l’avevo vista. Io che sono veneziano di origine ma che da tutta una vita abito a Roma, mi ero ormai rassegnato a vederla piena di monnezza (almeno nelle periferie).
I cassonetti erano sgombri, nessuna cartaccia nei pressi, le automobili diligentemente parcheggiate al loro posto, senza ostruire la strada. Se non sapessi di vivere nel tempo del coronavirus mi sarei stropicciato gli occhi, dicendo come Benigni “sto avendo un incubo!”. Si , come nel film “Non ci resta che piangere”, lui e Massimo Troisi si risvegliano, dopo una tempestosa notte passata in una locanda sperduta nella campagna, fuori del tempo, in pieno medio evo! E sono “cavoli acidi”.

Forse sta capitando qualcosa di simile anche a noi.
Ognuno di noi ha un determinato piano di vita giornaliero e settimanale. La routine della vita quotidiana fatta di lavoro, di impegni familiari, sociali, ecc. Le cose non ci vanno sempre bene come vorremmo, qualche volta ci troviamo stressati e ci viene voglia di mollare tutto, ma alla fine “stiamo al gioco” e siamo comunque noi a decidere cosa fare.

Il COVID-19 ci ha cambiato improvvisamente, e senza chiederci il permesso. Ci ha cambiato il ritmo abituale di vita e ci ha cambiato lo stato d’animo generale. Ci sembra a volte di vivere un sogno che ha un che di irreale e che a volte si può trasformare in incubo. Ci ha cambiato la concezione del tempo. Quello che gli psicologi chiamano il “vissuto del tempo”.
Come fare per non rischiare di vivere in un atteggiamento passivo e mortificante?
Bisogna riprendere il controllo della situazione: ci serve impostare un nuovo piano di vita, adeguato alle circostanze. E il primo atteggiamento da sviluppare è vedere il lato positivo delle cose.
Farci le grandi domande che da tempo non c’eravamo più poste, travolti dal ritmo frenetico della giornata. Dove stò andando? Chi sono le persone che mi stanno accanto? Perché lavoro? La vita è tutta qui?
Sono domande umane e religiose: perché nella vera umanità è presente l’anelito spirituale che la durezza della vita ordinaria ci fa a volte scordare. Scordare è la parola giusta: allontanare dal cuore . Ci dimentichiamo spesso della nostra condizione di creature e del nostro destino eterno di felicità. Sentirsi creature, figli, di un Creatore è la condizione comune di ogni religione: vale sia per i cristiani che per i musulmani, gli ebrei, ecc.
La seconda considerazione è che la creazione, originariamente buona, è un po’ bacata; come la mela della Bibbia: Una prima presa di coscienza è che, con buona pace degli ecologisti di prima o ultima generazione, la natura non è «buona»: il peccato dei progenitori ha avuto ripercussioni cosmiche, da allora la terra produce «triboli e spine», “geme per i dolori del parto finché non sarà anch’essa ricapitolata in Cristo” (san Paolo).

Quello che cambia è che, per noi cristiani, Dio è un padre buono che desidera la nostra felicità, cioè di vivere in letizia con tutte le sue creature. La morte, anche quella più brutta e abbandonata, non è l’ultimo tragico atto di una vita senza senso ma la porta verso un’eternità felice. Mi direte: si, bello e consolante, ma ci vuole fede per accettare tutto questo.
Si, ma è una fede ragionevole. Credo che ogni uomo, qualsiasi sia la sua condizione sociale, culturale, etnica, religiosa, ecc. possa fare questo atto di profonda umiltà: ” sono creatura , non solo figlio dei miei genitori, ma figlio di un Padre che mi ha permesso di venire al mondo. Un mondo che comunque mi piace; in cui soffro a volte ma in cui mi trovo a mio agio e che non vorrei mai abbandonare. Questo atto di profonda umanità mi fa diventare un “uomo di buona volonta” e mi permette di tornare a guardare le stelle. Come diceva lo scrittore svedese Lagerkvist : “Dio, mio Dio, perché ti ho abbandonato? Non so più vedere le stelle”.
Dicono alcuni che in questi giorni a Roma l’aria è più limpida, nei canali di Venezia sono ricomparsi i pesci (!) e i delfini giocano nelle acque di Reggio Calabria. Perché allora non riprendere anche noi il filo del dialogo con il nostro Fattore (così lo chiamava Dante Alighieri nel celebre canto 33 del Paradiso).
Anche noi in questo clima di incertezza, di vita rallentata, di attività soppresse, possiamo trasformare questa situazione in occasione di riprenderci la nostra vita cristiana che la concitazione e lo stress della vita di lavoro ci può aver rubato. Riprendiamoci ciò che ci è stato tolto, magari inconsapevolmente. E’ un’occasione anche di maggior presenza in famiglia, riscoprendo e facendo crescere gli affetti familiari, il dialogo reciproco, la bellezza dello stare insieme. Un momento per vivere anche la solidarietà con le persone che soffrono.
Riporto alcune parole scritte da don Robin , cappellano del Campus biomedico di Roma: La solidarietà in questi momenti è veramente importante. Sentivo il Direttore Generale della Organizzazione Mondiale della Salute (WHO) dire oggi che “questa straordinaria solidarietà umana che sta emergendo deve diventare più contagiosa del coronavirus” (This amazing spirit of human solidarity must become more infectious than the virus). Anche se fisicamente distante l’uno dall’altro possiamo unirci in un modo mai sperimentato prima. Siamo tutti coinvolti assieme e solo assieme vinceremo. Noi cristiani crediamo nella Comunione dei Santi e quindi nella efficacia della preghiera gli uni per gli altri e sentiamo fortemente il bisogno di aiutare chi è solo e ha bisogno di sostegno materiale. Prego perché le tante e continue informazioni che ci arrivano attraverso i media calino dalla testa al cuore e ci facciano sentire come nostre le sofferenze di tanti nostri colleghi ed amici.

Articolo di: Agostino Diveraro